THE ART OF THE BRICK di Nathan Sawaya

La storia dell'arte è concatenazione di eventi collegati fra loro, è storia di idee e oggetti tangibili che ne traducono l'essenza, il significato ultimo. In questo naturale percorso evolutivo trova spazio la dimensione di un'Estetica che si muove con il tempo variando di continuo i propri parametri per effetto delle mode, dei costumi, del panorama politico e socio-economico. Lo sguardo che assiste a tali mutazioni condiziona a sua volta il gusto estetico, quei modelli espressivi che – nella centrifuga della storia umana – determineranno poi nuovi paradigmi di riferimento. L'artista, talvolta con turbamento e disapprovazione, altre volte con entusiasmo, metabolizza questo complesso di mutazioni che diverranno poi stimoli, motivazioni per alimentare una corrente di pensiero, inseguire un obiettivo di rinascita oppure di contestazione, secondo la propria sensibilità. Ma, nel centro della sua coscienza, emerge inevitabilmente un dato incontrovertibile: il desiderio di innovare, azzerare o mutare lo stato delle cose, esprimere un qualcosa di unico ed inedito. Ecco, il vero sogno di ogni artista. Ovvero suscitare quella meraviglia che si pone sempre alla base di un qualsivoglia fenomeno; rendere l'incredibile e, per certi versi, l'indicibile. Perché l'essenza dell'arte presuppone anzitutto l'unicità, quel carattere di diversità che è in ultima analisi 'differenza', impronta digitale dello Spirito che piega la materia al punto da condizionarne la forma, il colore, l'incidenza della luce sulla sua superficie, trasformandola infine in concetto allo stato puro. E la memoria filosofica richiama il solenne e perfetto enunciato - purtroppo incompreso al suo tempo – di quel Giordano Bruno che affermava che è il pensiero, e solo il pensiero, a generare la materia (nelle sue molteplici forme), e non viceversa, anticipando così di secoli le rivelazioni della fisica quantistica. E' facoltà dell'uomo, dunque, evocare o trarre la vita dall'apparente inorganico, conferire anima all'inanimato attraverso la conquista e la manipolazione della materia che gli sta intorno, quasi al suo tacito servizio, pronta per essere trasformata nella già citata meraviglia finale.
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A questo punto, il carattere dell'invenzione diventa fattore imprescindibile della catena storica in continua evoluzione. Al fine di evitare il citazionismo, l'affettata – e talvolta stucchevole – arte di maniera che restituisce l'amaro sapore del 'già visto', l'artista vero è chiamato ad un ponderato impegno sia etico che estetico. Deve scongiurare i pericolosi sentieri della facile retorica, e questo è impegno non da poco. Inoltre, deve rispecchiare il proprio tempo, considerare il 'prima' ed intuire le possibili strade del 'dopo'. Il '900 è stato un secolo ricchissimo di innovazioni e fermenti artistici oltre che di immani tragedie. E forse sono state proprio queste ultime – per singolare paradosso – a sollecitare nuovi impulsi e spinte verso quelle rinascite che si sono succedute alle numerosissime cadute in termini di valori umani. I conflitti bellici planetari, soprattutto, hanno costretto l'uomo a reagire, a voltare pagina per sopravvivere nella cruda realtà e, ancor di più, nella coscienza, costruendosi delle nuove ragioni per continuare ad esistere coltivando la speranza di un mondo migliore. Sicuramente il secolo breve, come venne definito da Hobsbawm, ha portato con sé tutte queste contraddizioni. L'arte certamente ha intrapreso direzioni impensabili fino a qualche decennio prima. O perlomeno, così è stato fino ad un certo punto, diciamo la fine degli anni '60, prima di un'inevitabile crisi collettiva legata al post-consumismo e all'incedere di un inarrestabile progresso tecnologico e scientifico. La società dell'apparenza e dello spettacolo – che prelude la cosiddetta 'società liquida' contemporanea del disgregamento dei valori umani, citata da Bauman e avallata da molti intellettuali dell'antropologica culturale più reattiva – anticipa una crisi dell'espressività che merita la dovuta attenzione, ora più che mai, in un'epoca friabile dove tutta pare svanire velocemente. La celebre intervista del 1980 rilasciata dal grande storico Giulio Carlo Argan – in cui dichiarò, lapidario, 'l'arte è morta' – fu in qualche modo la classica ciliegina sulla torta di un pessimistico quadro che si stava man mano delineando. In realtà, la frase di Argan necessitava di una corretta interpretazione. Infatti, l'enigmatica e lugubre 'sentenza' voleva significare non tanto una fine in senso letterale ma una frammentazione dell'espressività e della concezione estetica in molti canali comunicativi. In altre parole, la sopravvivenza contemporanea dell'arte era vincolata all'ingresso di nuove forme e materiali, tecnologie avveniristiche e, naturalmente, idee. Il tutto avrebbe dovuto tener conto del progresso tecnologico connesso ai nuovi media, ad una dinamica sociale assolutamente inedita. Oggi possiamo affermare che la profezia di Argan si è rivelata esatta. D'altronde, già la Pop Art aveva scardinato le convenzioni, così come l'Optical o l'Arte Povera, che sono da considerarsi quali prodromi di una mutazione senza precedenti. Nel nuovo millennio tutto questo è diventato realtà, e mai come ora si deve tener conto che l'arte deve essere intesa in un senso molto ampio e che la stessa, come un'ameba, può presentarsi sotto molteplici sembianze, anche quelle più impensate. Di fatto, è difficile oggi individuare una corrente artistica che possa rappresentare questi nostri anni tormentati. E da molti, proprio la Pop Art è considerata l'ultimo grande movimento di avanguardia storica che conclude un secolo, il novecento appunto.
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Nathan Sawaya rappresenta la naturale conseguenza – ed evoluzione – del succitato discorso. Infatti, questo artista americano possiede tutte le caratteristiche connesse ad una visone non solo originale ma anche stupefacente del concetto di 'manipolazione' della materia. La sua indagine contiene in sé quel carattere di invenzione nella scelta della modalità espressiva che ha contribuito a crearne un personaggio davvero unico nel panorama contemporaneo. Inoltre è stato il primo. Il primo ad intuire e sposare una modalità esecutiva diversa, anticonvenzionale, fino a quel momento forse impensata. E questa intuizione, come già accaduto nella fenomenologia Pop, viene ispirata dall'osservazione di un semplice gioco per bambini che tutti ricordiamo quale luogo della memoria: i mattoncini Lego della famosissima azienda danese. Un gioco didattico, di grande valenza educativa, da sempre considerato indispensabile per stimolare la creatività e l'attitudine a costruire liberamente attraverso l'incastro e l'assemblaggio. Nathan Sawaya, per certi versi, guarda indietro per poter andare avanti e proporsi quale riferimento di un nuovo modello di indagine. Ex avvocato in carriera, decide di dare una svolta alla sua vita. Recupera la sua fantasia bambina, medita soluzioni e possibili applicazioni dei mattoncini policromi. Compie studi sulle forme, i colori, gli effetti tridimensionali in uno spazio tutto da conquistare. Si accorge che quegli angoli squadrati e spigolosi nella visione ravvicinata possono diventare curve armoniose nella prospettiva lontana, come metafisiche sculture in plastica che paiono animarsi e comunicare. Rimane affascinato da quelle costruzioni realizzate con metodo certosino che gli evocano antiche reminiscenze. Nasce così 'The Art of the Brick', il suo marchio di fabbrica, una locuzione che pare quasi il manifesto di un'arte 'altra' senza precedenti. Da subito se ne occupano la stampa internazionale e i grandi network. La CNN indica una sua mostra fra i primi dieci eventi da non perdere. Ed il successo è immediato. E' interessante, a questo punto, oltre la genesi creativa, comprendere le ragioni di un tale consenso planetario che pare avvolto nella magia di un racconto fantastico. Immaginiamo Nathan, giovane artista americano, che acquista semplicemente i mattoncini dall'azienda, senza alcuna sponsorizzazione, da semplice cliente. Mattoncini nei formati standard numerati, non le costruzioni già pronte realizzate in fabbrica. Immaginiamo poi che da mero hobby volto ad allontanare la tensione della faticosa giornata lavorativa, il tutto diventi espressione libera di una creatività necessaria che vuol fuoriuscire per esprimere un mondo interiore, dei sentimenti, delle constatazioni esistenziali in cui sono racchiusi interrogativi, contraddizioni, incanti e disillusioni. Ed il gioco – è il caso di dirlo – è fatto. La favola dell'arte prende corpo, forma, vita. E nasce il nuovo fenomeno. Il concetto mentale, ovvero il 'significato', si coniuga con il 'significante' che rappresenta il piano dell'espressione, il simbolo immediatamente riconoscibile. Una fusione di elementi che trasmetterà in presa diretta stati d'animo, pensieri, emozioni racchiuse in quella che sarà l'opera d'arte compiuta che coinvolgerà davvero tutti, adulti e bambini. Ecco, il carattere universale dell'arte che unisce. Ecco l'arte che parla a tutti attraverso la malia ( e magia) di un linguaggio immediato e comprensibile, difficilmente inquadrabile in un movimento d'avanguardia pregresso. Certo vi si possono riconoscere delle contaminazioni Pop, per il carattere appunto 'popolare' del materiale prescelto, così come avvenne a suo tempo per le bottigliette di Coca Cola o i barattoli di minestra Campbell di Andy Warhol. Potremmo anche parlare di dadaismo contemporaneo, pur con i dovuti distinguo che il termine impone nel significato storico letterale, oppure di surrealismo sui generis. Forse tutte queste affermazioni potrebbero essere ammesse, ma nessuna potrebbe in ogni caso vantare l'esclusiva attribuzione di paternità. Ed è plausibile che non vi sia una risposta precisa, poiché quasi ogni fenomeno contemporaneo ha comunque radici lontane di appartenenza cui ricollegarsi. Più coerente, forse, parlare di lavoro di sintesi, di ricognizione alternativa, di linguaggio anticonvenzionale con vaghi rimandi al passato.
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Ma, se l'attenzione iniziale di questo artista era rivolta allo studio delle cose, sarà nella rappresentazione della figura umana che il quadro iconologico si delineerà in tutta la sua penetrante intensità. L'essere umano che esprime sentimenti e sommovimenti interiori frutto di una bruciante ipersensibilità. Dolore, smarrimento, alienazione psichica e psicologica. In alcuni momenti estremamente tensivi le figure colorate subiscono lacerazioni e divisioni. La materia plastica si trasforma allora in una dimensione viva che va oltre se stessa per effetto di un coinvolgente potere evocativo che non può lasciarci impassibili. Improvvisamente diveniamo partecipi perché riconosciamo non qualcosa ma molto di noi stessi. Nell'epoca della paura e dell'incertezza tutto diventa palpabile e realistico. Il 'gioco' allora si fa più che mai eloquente, a tratti drammatico. L'aspetto ludico si pone in secondo piano perché quei mattoncini richiamano la vita autentica, con le sue innumerevoli sfaccettature. Il ghigno beffardo dei celebri teschi policromi – in cui Nathan affronta il tema della Morte – ci ricordano che aldilà del colore della nostra pelle, della personalità o condizione sociale, sotto sotto siamo tutti uguali. E non c'è polemica o risentimento razziale. Solamente semplice constatazione, così come la potrebbe formulare, con sicura naturalezza, un bambino intento ad assemblare i suoi mattoncini. E' un'umanità che si interroga, quella rappresentata dall'artista. Un'umanità forse dolente ed in confusione interiore – propria di questo tempo – ma è innegabile ch'essa sia autentica e senza mistificazioni. 'Ludendo docere', ovvero 'insegnare giocando', dicevano i latini. Ed il sipario si alza sul gioco metaforico che diviene arte concettuale al pari delle grandi avanguardie novecentesche. A questo punto, è difficile dire se Nathan Sawaya abbia fondato, suo malgrado, una scuola o un nuovo Movimento. Forse è prematuro azzardare proclami o previsioni. Di certo fa impressione constatare come un artista di fama mondiale, il cinese Ai Weiwei, considerato sovversivo e pericoloso dissidente nel suo paese, nel 2014 abbia realizzato una serie di ritratti di celebri perseguitati politici, proprio in mattoncini Lego. Un'attribuzione di valore? Un attestato di stima al collega americano? Sia come sia, è un segnale importante che testimonia una progressiva affermazione che fa premio non solo ad un grande impegno esecutivo ma anche ad una ferrea convinzione sulle potenzialità del nuovo linguaggio. Di certo l'opera di Nathan intitolata 'Yellow', è già diventata a suo modo un'icona. Una figura umana solleva i lembi di un ventre aperto al cui interno vi è una moltitudine di mattoncini Lego dello stesso colore. Una metafora di ciò che siamo? Probabile, anzi, quasi esplicito. Non è affatto strano pensare che ognuno di noi è costituito da miriadi di mattoncini accostati che chiamiamo atomi e molecole. Tutto parte dall'infinitamente piccolo per arrivare all'immensamente grande, così come insegna la Verità dell'Universo. Mattoncini che sono Energia allo stato puro. No, non è poi così strano giungere a questa riflessione, mentre Nathan Sawaya – con la forza e la passione di quello che sembrava inizialmente un 'gioco' – continua a stupirci. In un certo senso, i suoi possono dirsi oggi, i mattoncini dell’Umanità.

Giancarlo Bonomo
Critico d’arte

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